Il rapido sviluppo delle neuroscienze ha indicato come numerosi aspetti del comportamento
rispecchino le caratteristiche del sistema nervoso e come fare esperienze dipenda dall’interazione
tra numerose funzioni cerebrali. Conoscere come funziona il cervello può quindi tradursi in un
migliore processo educativo, soprattutto in quegli anni in cui il cervello prende forma sulla base di
una maturazione nervosa in cui si intrecciano fattori genetici ed esperienziali. Al centro della
neuropedagogia è infatti il principio della plasticità neuronale, ovverosia il fatto che il cervello è in
grado di modificare la sua struttura sulla base degli stimoli ambientali, dell’esperienza.
Un primo aspetto da considerare è il ruolo esercitato dalla motricità nel corso dello sviluppo, un
ruolo importante se si tiene conto del fatto che sia a livello della corteccia cerebrale, sia a quello
delle strutture sottocorticali e del cervelletto, le funzioni motorie sono fortemente rappresentate.
Una delle conseguenze del vasto spazio dedicato alla motricità è che l’esercizio motorio ha un vasto
impatto sulla maturazione della mente infantile. Nel corso della crescita, il cervello ha inizialmente
bisogno di fare esperienze tattili e motorie, punto di partenza per la maturazione delle aree
superiori, quelle del linguaggio e del pensiero complesso. Il rapporto tra sensi e motricità è quindi al
centro di numerosi aspetti della neuropedagogia focalizzati sul fatto che la mente infantile è
concreta, basata sull’interazione diretta, su una serie di tentativi, anche infruttuosi, promossi dal
bambino e non prefigurati dal programma.
Lo sviluppo della motricità avviene gradualmente dopo la nascita attraverso tappe ben precise.
Dopo qualche settimana, il neonato è in grado di compiere movimenti grossolani, ad esempio
avvicinare al suo corpo un oggetto attraverso un movimento poco selettivo del braccio; dal secondo
al quarto mese può afferrare qualcosa, ad esempio il proprio piedino, stringendo simultaneamente
tutte le dita della mano; in seguito è in grado di orientare le mani e sviluppare quella che si chiama
una “presa di precisione”, vale a dire opporre l’indice e il pollice della mano per afferrare un
piccolo oggetto, ad esempio un cucchiaio. Queste azioni motorie sono man mano sempre più
coordinate e basate su un susseguirsi di atti che dipendono da memorie “procedurali” che
codificano sequenze di movimenti in grado di rispondere a situazioni specifiche. Queste sequenze,
che rassomigliano a delle parti recitate a memoria, al punto che sono state definite col termine di
“copioni” (script), si arricchiscono ben presto di complesse sequenze muscolari volte a imitare le
espressioni facciali dell’adulto. I movimenti degli arti e la mimica sono un nucleo iniziale di schemi
motori, memorie muscolari intorno a cui si addensano le memorie successive, come una specie di
ordito che man mano verrà “lavorato” dalle successive esperienze e dalle attività della mente.
Queste stesse memorie muscolari o “corporee” costituiscono il punto di partenza dei successivi
apprendimenti linguistici, anch’essi fondati su sequenze motorie che non sono molto differenti
dall’organizzazione dei movimenti della mano o della testa ma che servono per produrre una serie
coordinata di suoni significativi.
Lo sviluppo delle memorie motorie nel corso dell’infanzia indica che la memoria non è soltanto
un fatto mentale ma anche somatico, basato su procedure non esplicitabili, difficilmente
formalizzabili in termini linguistici. Come si fa a descrivere la sequenza di movimenti delle labbra e
della lingua che servono per produrre suoni come “mamma”, “pappa” “nanna”? L’azione racchiude
in sé un sapere del corpo che può essere acquisito soltanto attraverso l’imitazione e la pratica, come
nel caso del linguaggio che si realizza a partire da catene coordinate di movimenti degli organi
vocali, memorizzati attraverso ripetizioni successive. Esiste uno stretto intreccio tra motricità e
pensiero, al centro delle concezioni di Maria Montessori1, e ciò traspare spesso dal modo in cui
funziona la nostra mente: ad esempio, concentrarsi su un problema, vale a dire pensare, implica un
aumento della tensione muscolare del collo mentre rilassare i muscoli facciali o atteggiare il volto a
un sorriso può modificare le nostre sensazioni ed emozioni.
Un secondo aspetto su cui vale la pena di soffermarsi è il ruolo esercitato dalle funzioni
esecutive – attenzione, memoria, capacità di pianificazione ed esecuzione di un compito – nel corso
dello sviluppo. Qualche anno fa due psicologi dello sviluppo dell’Università del Colorado, Naomi
Friedman e Akira Miyake2 hanno proposto un modello delle funzioni esecutive che si basa su una
triade funzionale: inibizione, flessibilità mentale, aggiornamento. L’inibizione è la capacità di
sopprimere informazioni non pertinenti interne o esterne, la flessibilità significa passare
alternativamente da un’operazione mentale a un’altra (ad esempio dalla divisione alla
moltiplicazione), l’aggiornamento comporta modifiche del contenuto della memoria di lavoro a
seconda dell’informazione più recente. I bambini piccoli devono mettere in campo delle strategie
abbastanza generiche per bloccare un compito in corso ed evitare di perseverare nella mansione
precedente per passare alla successiva. Infatti, le tre componenti delle funzioni esecutive non sono
ben differenziate sino ai 5 anni per poi divenire più autonome. La quantità di informazione
manipolata (ad es. il numero di cifre) aumenta progressivamente a partire dai 5-6 anni: ad esempio,
sino a 7 anni i bambini non utilizzano la ripetizione subvocale (per attuare un compito) mentre in
seguito cominciano a farlo muovendo le labbra. Anche il doppio codice verbale e visivo non entra
in funzione che dopo i 7 anni: sino a quel momento i bambini si basano soltanto su informazioni
visuo-spaziali, meno efficaci di quelle dipendenti da un doppio codice. È soltanto nell’adolescenza
che le funzioni esecutive si consolidano cosicché gli adolescenti sanno padroneggiare la loro
flessibilità mentale per adattarsi a nuovi compiti.
Per fare esperienze significative, memorizzare, apprendere, è necessario selezionare alcuni tra i
tanti stimoli che bombardano la nostra mente, in particolare la mente di un bambino piccolo, aperta
a ogni cambiamento e a ogni nuova sensazione. Questo processo implica un’attenzione selettiva,
capacità che matura lentamente e passa da una manciata di secondi, nelle prime settimane e mesi di
vita, a tempi progressivamente più lunghi. L’attenzione di un bambino piccolo è di brevissima
durata: è in questa fase, spesso poche decine di secondi, che un lattante può fare brevi esperienze
notando ciò che c’è di nuovo nell’ambiente, prestando attenzione ai messaggi dell’adulto,
esplorando attivamente un oggetto nuovo. La labilità dell’attenzione di un lattante o di un bambino
piccolo è legata soprattutto all’immaturità della corteccia frontale che ha il compito di reprimere gli
stimoli irrilevanti – esterni e interni – e, di conseguenza, consente di sostenere l’attenzione nei
confronti di uno stimolo particolare. L’incostanza e la breve durata dell’attenzione sono anche
legate a una scarsa maturità dei meccanismi della motivazione che contribuiscono a sostenere
l’attenzione e contrastare la stanchezza. Le modalità dell’attenzione sono diverse nel corso dello
sviluppo: non soltanto un bambino piccolo ha un’attenzione labile ma non è in grado di sostenere
due compiti simultaneamente. Perciò se lo si distrae da un compito ha difficoltà a concentrarsi
nuovamente su di esso e quell’esperienza può andare perduta, anche a causa delle scarse capacità
mnemoniche.
Anche nei bambini più grandi, l’attenzione è di breve durata: ad esempio, un bambino di 6-7
anni comincia a distrarsi dopo appena 15 minuti mentre un ragazzo di 15-16 anni è in grado di
prestare attenzione per circa 30-45 minuti. Per favorire l’apprendimento bisogna quindi utilizzare
esperienze brevi, alternare argomenti e “codici” sensoriali: ad esempio, con un bambino della
scuola materna bisogna saper cogliere le fasi di attenzione e ogni esperienza deve avere un carattere
ludico mentre nei bambini della scuola primaria è opportuno fare pause frequenti, cambiare
l’argomento di discussione o lettura e stimolare la sua attenzione con l’aiuto di immagini, aneddoti,
richiami “leggeri”. Bisogna inoltre favorire l’assunzione di un ruolo attivo, spingendo il bambino a
individuare ciò che più lo attrae nella pagina di un libro, le associazioni suscitate da un particolare
disegno ecc.: tanto più si è coinvolti in prima persona, cioè non si è passivi, tanto più l’attenzione è
desta. Molto spesso, anche se ciò può sembrare banale, non si presta attenzione in quanto si è
distratti da troppi stimoli: un televisore o una radio accesi, il telefono ecc.
Un altro fattore che interferisce con l’attenzione è l’ansia: se un bambino o un ragazzo è
preoccupato, se vi sono tensioni familiari ecc. l’attenzione diminuisce, la mente è sempre rivolta ad
altri pensieri o ci si trova in uno stato di confusione. Più in generale, e questo è uno dei grandi
problemi della scuola odierna, bisogna tenere presente che molti bambini e ragazzi sono abituati a
un bombardamento di messaggi (TV e videogiochi) molto rapidi: in numerosi videoclip vi sono
quasi 100 immagini che si succedono in un minuto per cui le situazioni che richiedono lentezza
vengono vissute con intolleranza. È quindi necessario cercare di insegnare la lentezza e la
concentrazione: ad esempio, si può tentare di favorire la capacità di osservare il comportamento
animale, le variazioni stagionali della natura, insegnare ad avere cura delle piante ecc. Tutte queste
sono strategie indirette ma utili per assumere nuovi tempi e modi di interagire con la realtà.
Attenzione e apprendimento, in particolare in ambito scolastico, non dipendono però soltanto
dalla messa in gioco di specifici processi mentali o dall’adozione di strategie ad hoc. I risultati di
diversi studi indicano infatti che il potenziamento delle funzioni esecutive può essere raggiunto
grazie ad alcune strategie. Ad esempio, dopo 15-20 minuti di attività fisica aerobica (correre) la
capacità di concentrazione migliora notevolmente: queste conoscenze dovrebbero tradursi in
un’anticipazione dell’ora di educazione fisica all’inizio della giornata scolastica o nel fare brevi
pause di attività fisica nel corso delle ore scolastiche. Più in generale, si è visto che nei bambini che
presentano deficit di attenzione la pratica di esercizi basati sul controllo motorio aumenta le
capacità di concentrazione.
Un’altra strategia consiste nel favorire le associazioni tra rappresentazioni motorie e
apprendimento3, attraverso una tecnica che è stata definita “apprendimento recitato” dal Centro per
la Neurobiologia e l’Apprendimento dell’università di Ulm4. La tecnica sfrutta il fatto che le
memorie motorie-procedurali (legate alla ripetizione e raffinamento dell’esecuzione di un
particolare movimento) sono particolarmente robuste mentre quelle semantiche (ad esempio le
memorie legate al significato delle parole) sono più fragili. L’apprendimento recitato è stato
utilizzato per migliorare l’apprendimento di una seconda lingua: i bambini devono recitare in
gruppo una serie di vocaboli accompagnandoli da gesti e movimenti che ne rappresentino il
significato. Uno studio sull’efficacia di questo metodo indica che gli studenti hanno raggiungono
prestazioni tre volte superiori rispetto agli studenti che hanno seguito il metodo convenzionale.
Anche l’esecuzione di brani musicali, possibile nei bambini più piccoli grazie a strumenti
improvvisati e a vocalizzazioni, migliora le funzioni cognitive in quanto viene accelerata la
maturazione della corteccia cingolata. A ciò si aggiunga il fatto che l’esecuzione musicale di gruppo
agisce anche sulla coesione e maturazione sociale.
In sostanza, una migliore conoscenza di come funziona il nostro cervello e delle caratteristiche
del suo sviluppo può far sì che la pedagogia si agganci a conoscenze concrete. Un approccio
neuroscientifico all’educazione non vuole certamente sostituirsi alla pedagogia ma indicare a
genitori e docenti come numerose esperienze dipendano da come è fatto e funziona il cervello e
come queste conoscenze possano tradursi in un migliore processo formativo.
Alberto Oliverio
1 Oliverio A. La mente in azione. Il ruolo della motricità nei processi di rappresentazione mentale. In Montessori
Centenary Conference 1907-2007, Vita dell’Infanzia, 56, 27-34, 2007. Oliverio A. Il cervello che impara, Giunti, 2017.
2 N.P. Friedman e A. Miyake Unity and diversity of executive functions: Individual differences as a window on
cognitive structure. Cortex doi.org/10.1016/j.cortex.2016.04.023
3 Oliverio A, Der handelnde Geist. Über die Bedeutung motorischer Abläufe für mentale Repräsentationsprozesse. Das
Kind 41, 51-63, 2007.
4 Kiefer, M., & Trumpp, N. M. (2012). Embodiment theory and education: The foundations of cognition in perception
and action. Trends in Neuroscience and Education, 1, 15-20.
5 Santoianni, F. (2007). Bioeducational Perspectives on Adaptive Learning Environments, 83-96. In F. Santoianni, & C.
Sabatano (Eds.), Brain Development in Learning Environments. Embodied and Perceptual Advancements. Cambridge:
Cambridge Scholars Publishing.